La fluidità lavorativa: un’ironia amara sul precariato

Che cosa significa oggi essere precari? Cosa significa non trovare lavoro? O trovarlo e lavorare senza diritti e sottopagati?
Nella società di oggi, tutti quanti ormai hanno toccato con mano questa condizione. Soprattutto a seguito della crisi del 2008, quasi in tutta Europa, persone di tutte le età si sono ritrovati senza una vera e propria stabilità economica. I contratti a tempo indeterminato, l’obiettivo di molti giovani, soprattutto italiani, è diventato un privilegio per pochi e non più la normale e noiosa routine.
A peggiorare la situazione è arrivata la pandemia di Covid-Sars-19 che ha dato il colpo di grazia a tante categorie, in particolare a tutti quei piccoli imprenditori che, tenacemente, avevano resistito fino ad ora.
Questo articolo non ha chiaramente l’obiettivo di voler parlare delle cause socio-economiche hanno portato a questa situazione di forte precarietà. Ma vuole riflettere e ragionare, quasi denunciare, su cosa significhi essere precari. Su cosa significhi non avere la possibilità di potersi comprare una casa, di poter viaggiare, di poter andare a cena fuori, di potersi costruire concretamente un futuro. Di dover, di anno in anno, cambiare. Se infatti decidessimo di uscire da una concezione del lavoro come mero processo di produzione, ci possiamo rendere conto di quanto lasciare un lavoro significa anche lasciare un luogo che ormai è diventata casa, l’affetto dei colleghi e la possibilità di specializzarsi in qualcosa. Per quanto possa sembrarci ripetitivo, svolgere ogni giorno azioni simili ci rende esperti. La disciplina e la costanza sono necessarie per fare davvero la differenza.
Al netto di tutte queste riflessioni, vorrei pertanto proporre un brano tratto da Studio illegale di Federico Baccomo, prendendo in presti la sua ironia nell’affrontare questo tema. Il libro, nato inizialmente sotto forma di blog, è stato pubblicato nel 2009 ed ha da subito riscosso moltissimo successo, permettendo all’autore di poter uscire dal suo stato di precarietà. Il libro infatti racconta la storia di Andrea, un giovane avvocato assunto presso una grande azienda di studi legali a Milano. Andrea non è altro che l’autore stesso, che, dopo gli studi in legge, ha trovato posto all’interno di uno studio legale (ribattezzato “illegale”).
Il brano che segue racconta di un incontro tra Andrea, Giuseppe, il suo direttore e Donato, un manager di un’azienda che vuole investire in un ambizioso, quanto “stravagante” progetto…
La realtà che descrive Baccomo è quella in cui i giovani e i competenti, pieni di grandi speranze, si ritrovano sottomessi a manager ottusi e incapaci, la cui unica fortuna, probabilmente, è stata quella di essere nati nel periodo giusto.

Mentre le porte si chiudono sulla faccia interdetta di Gerri, entro nella sala riunioni Violetta dove un uomo con le gambe accavallate sta giocando con la rotella del Blackberry. Appena mi vede, si alza svogliatamente, mi porge la mano, afferra la mia con sufficienza e si rimette seduto guardando fuori dalla finestra, con l’aria di chi stava aspettando un lauto pranzo e dalla cucina gli è stata servita una mezza focaccina bruciacchiata per ingannare l’attesa. Mi arrischio a sciogliere l’atmosfera. Mi avvicino e gli consegno il mio biglietto da visita. “come stai, Donato? Mi fa piacere conoscerti di persona”. “Scusa”, Donato alza un dito e lo abbassa come mettermi in pausa. Estrae il telefonino e digita un numero. “Ehi… si, sono qui dai legali… no, non c’è ancora nessuno”. Considero l’ipotesi di colpirlo con una pinzatrice in mezzo al mento ma il dubbio che il gesto possa avere delle ripercussioni negative sulla parcella riesce a trattenermi. Prendo una caramella latte-menta e vado a sedermi al lato opposto del tavolo. Faccio roteare tra le dite una delle matite con il brand dello studio. Scrivo sul mio bloc notes la data di oggi facendo attenzione a non uscire dai quadretti. Slaccio le scarpe e le riallaccio. Mi guardo intorno. A una parete vedo un quadro senza cornice, appeso ad una cordicella simile a quella con cui sono intrecciate le sedie. Il quadro è di tre colori disposti a vomito di bimbo: giallo, blu, verdone. Mi mette ansia. Alla parete opposta vedo una cornice, senza quadro. È di legno bianco, appesa con lo stesso tipo di cordicella. “Si tratta di dare un tocco di moderna classicità” mi hanno detto. O classica modernità, non ricordo. Incrocio le braccia. “Donato. Eccoti qui”. Giuseppe fa il suo trionfale ingresso tenendo le braccia tese avanti a sé. “Giuseppe”, Donato si alza, anche lui tendendo le mani. “Sempre in forma, sempre abbronzatissimo”. Si abbracciano. Eppure io so che Giuseppe e Donato non si sono mai visti prima d’ora, anche perché Giuseppe al kick-off meeting non c’è andato visto che – mi ha raccontato Achille – era bloccato da un violento raffreddore a Courmayeur. I due continuano a stringersi e io comincio a prendere appunti sulla riunione e disegno un cappio. Poi Giuseppe si accorge di me e spalanca le braccia. “Endriu, mannaggia a bubbà, ma dove sei andato a sederti? Mi fai il timido, mi fai? Vieni qui, dai. Vieni qui con noi. Donato, questo è il nostro Endriu, l’ottimo Endriu. Sarà lui il timone per questa traversata”. […] “Allora” esordisce “Giuseppe. Antonio”. “Andrea”. “Certo, Andrea. Immagino che abbiate letto le carte e vi siate già fatti un’idea del progetto, il Projet treperdue, ma lasciate che vi presenti personalmente questa piccola rivoluzione”. Donato estrae dalla ventiquattrore una serie di diagrammi, di grafici, di torte. “Come sapete, la Zeus Investiments fa parte del grande gruppo della Olympus Ink., una delle più importanti realtà industriali dell’Emirato del Dubai”, si avvicina con cautela e aggiunge, sottovoce: “ l’emiro, facciamo capo direttamente all’emiro”, poi sgrana gli occhi e rimane con la stessa espressione per qualche secondo. “Io, tra parantesi, vengo proprio da lì, sono atterrato ieri sera, faccio su e giù, Milano-Dubai, Dubai-Milano, la rotta della moda internazionale, dormo sempre in stanze molto grandi, ma non vi dico, povero il mio Giulio, col papà sempre lontano, comunque non perdiamoci in chiacchiere. Voi sapete di cosa si occupa la Zeus Investiments?”. “Centri commerciali” dico. “Shopping centers, esattamente. E cosa fanno gli shopping centers, o centri commerciali come dite voi qui in Italia?”. “Fanno allegria” tiro ad indovinare. “Allegria? Ma che ca…”, Donato sembra spiazzato. “Ma quale allegria. I soldi, fanno. Il futuro del commercio non è nel prodotto, e tanto meno nel brand. Il futuro è nell’astrazione dell’acquistare, svincolandosi completamente dall’oggetto dell’acquisto. Il mezzo che si fa fine”. Una sensazione di déjà-vu. Sono quasi sicuro di avere letto le stesse parole sul documento di presentazione durante la presentazione di ieri. Futuro, astrazione dell’acquistare, mezzo che si fa fine. “Ed è qui che entra in gioco la Zeus Investiments” continua Donato cominciando a piegare il mio biglietto da visita. “I centri commerciali di oggi sono – perdonatemi il bisticcio – troppo commerciali. C’è bisogno di una ristrutturazione, in inglese restyling. Guardiamoci in giro, strutture da provincia, pacchiane, giostrine e palloncini. Il nostro è un progetto ambizioso, di frontiera. Esclusivo. In inglese exclusive”. Donato finisce di plasmare una rana con il mio biglietto da visita. “Creeremo una joint venture. Con un partner, Meyon & Tolsen, che ha mostrato subito entusiasmo per il progetto. Meyon & Tolsen mette la sua presenza sul territorio, noi, il know-how e il risultato sarà…” Donato appoggia un polpastrello sul posteriore della rana: “… Un nuovo concetto di centro commerciale…” Donato preme e fa scivolare via il dito. La rana schizza in aria, si scontra con il porta matite e precipita con irritante rassegnazione. “… Il centro commerciale di lusso” rimarca Donato incrociando le braccia sul petto. Cerco lo sguardo di Giuseppe che rimane immobile a fissare qualcosa davanti a lui, e Donato prosegue. “Intendiamo cominciare dall’Italia, che gli arabi hanno eletto patri del buongusto, e potete solo immaginare il mio orgoglio. Pensiamoci su, oggi la gente va da Prada, Gucci, Frau. Poi entra nei centri commerciali e cosa ti trova? Non fatemi dire cose che poi mi accusano di diffamazione. Noi vogliamo dare all’acquirente la possibilità, il diritto, di essere se stesso anche, e soprattutto, in un centro commerciale. Mettere insieme i più grandi e pregiati brand, i migliori prodotti e i migliori servizi, in strutture moderne, raffinate, eleganti. Via Veneto a Fossombrone”. Il tono di voce di Donato si fa via via più elevato. “Cominceremo dai tre centri commerciali nel nord-est, di proprietà della Bogomin. Uno dopo l’altro, distruzione e ricostruzione. E poi, subito, un altro qui, in Lombardia. Porteremo via Montenapoleone a Cantù. Un nuovo confine che cade, ed è qualcosa di straordinario. In inglese extraordinary”. Non conosco la qualifica di Donato, ma sentendolo parlare mi rendo conto che potrebbe essere un legale interno o un direttore esecutivo o un architetto progettista, qualunque cosa. La sua ottusità sembra assolutamente generale. “La Joint Venture sarà paritaria”. “50 e 50” conferma Giuseppe, interrompendo il monologo. “50 e 50 punto. Bravo Giuseppe. Anche se, diciamolo, qui tra noi, la Zeus Investiments dovrà essere superiore. Il contratto di Joint Venture dovrà disegnare degli equilibri, per così dire, sbilanciati. Chiaramente a nostro favore. E questo sarà il lavoro vostro, di voi legali. Mi raccomando. Superiori, come Yin Yang, che sono pari ma uno è bianco e uno è nero. Ecco, noi dobbiamo essere i bianchi, loro i neri. E non è razzismo. Io ho un sacco di amici neri di colore”. Giuseppe annuisce, “capito tutto, non dire una parola di più”. “Oh, naturalmente” prosegue Donato “devo dirvi che dobbiamo procedere con solerzia. I tempi sono molto stretti”. “Perché sono stretti?” domando, trovando finalmente uno spazio per infilarmi. Donato arrossisce di rabbia. “I tempi sono sempre stretti”. Spiega digrignando i denti. “Ma certo” interviene Giuseppe gelandomi con lo sguardo. “Giuseppe” ordina Donato, “io ho bisogno di una struttura che funzioni”. “e l’avrai”. “No, scusate” riprendo. “io lo dico perché ieri a Treviso ho avuto modo di passare un po’ di tempo della data room. Di documenti da analizzare ce ne sono parecchi. Insomma, tra due diligence e preparazione del report, prima, stesura del contratto, poi, è necessario che …”. “Endriu, fermati, per carità. Non stiamo a perdere tempo adesso con i tecnicismi. Donato ci ha fatto presente la sua necessità, starà a noi trovare il modo – e caro Donato, io ti assicuro che lo troviamo – di far funzionare tutto al meglio”. “Bravissimo Giuseppe” esulta Donato, allungando di scatto le braccia in avanti e cacciando fuori i polsi dalle maniche della giacca. “La mia necessità” ripete lentamente, assaporando le parole. Si procede con un’euforia che riduce ai margini preoccupazione, perplessità, accuratezza. Donato spiega, Giuseppe ascolta, Donato rilancia, Giuseppe annuisce, Donato domanda, Giuseppe temporeggia, Donato si mostra confuso, Giuseppe si mostra entusiasta, Donato lancia il bastone, Giuseppe scodinzola. E intanto hanno già tolto la giacca, arrotolato le maniche della camicia, scalato nuove gerarchie sociali.

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