“Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla, sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m’induceva a fingere di sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere più felice di lei. Perché nessun’altra avrebbe saputo amare più intensamente. Lo stesso affetto di Clara non era né sì assoluto, né sì profondo; non aveva né la forza, né l’abbandono, né la continuità, né la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negata la bellezza, lo aveva forse fatto per temperare, col difetto di questa, l’esuberanza pericolosa di quella. Oltre a ciò, ella pensava, agiva, amava come una persona inferma. Tutto era eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità era sì eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi timori, tutto era subordinato alle circostanze le più inconcludenti della sua vita d’ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell’amare e nel contraddirsi, quantunque nelle sue stesse contraddizioni vi fosse qualche cosa di ordinato e di coerente, e nel suo amore un non so che di oscuro e di mutabile che non ne lasciava comprendere la natura e lo scopo. Era ben certo che in fondo a tutto ciò vi era un carattere ma si poteva meglio indovinarlo che dirlo. Passavamo quasi tutta la giornata assieme. Al mattino la vedeva da sola come prima; alla sera suo cugino si tratteneva qualche ora con noi; poi finiva coll’uscire e col lasciarci soli da capo. Spesso Fosca teneva il letto, e io vegliava al suo capezzale gran parte della notte. Era impossibile ribellarsi a quelle esigenze, impossibile allontanarsi da lei un istante più presto di ciò che era inesorabilmente necessario, o lasciarle apparire soltanto l’affanno in cui mi poneva quel sacrificio. Ciò avrebbe bastato a provocare qualche accesso terribile. Era cosa avvenutami qualche volta nei primi giorni della nostra relazione, e n’era rimasto sì atterrito che mi sarei assoggettato a qualunque gravissima prova per evitarlo.
Durante quelle sue convulsioni io temeva che ella morisse, e mi sentiva rabbrividire a questo pensiero, giacché se ciò fosse avvenuto ne sarei stato io la causa. L’abitudine mi vi aveva reso in pochi giorni sì rassegnato, che io aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi a quella tortura. Il timore di ucciderla mi rendeva capace di qualunque sacrificio. Ella mi faceva rimanere vicino al suo letto delle lunghe ore, e nelle posizioni le più penose; o col capo sul guanciale, o colle mani intrecciate colle sue, o col viso rivolto verso la luce perché potesse vedermi bene. Mi conveniva chiudere gli occhi, aprirli, fingere di dormire, sorridere, parlare, tacere, alzarmi, passeggiare, tornarmi a sedere, secondo che ella mi diceva di fare. Una disubbidienza commessa con garbo poteva farla sorridere, ma un atto dispettoso poteva avere conseguenze fatali. Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sì violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocate in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. […]
Spesso mi teneva abbracciato delle lunghe ore, e mi faceva ripetere parola per parola alcune frasi affettuose che né il mio cuore mi avrebbe suggerito, né avrei avuto la forza di dirle. Queste sue follie erano inesauribili come la mia rassegnazione, giacché tutto ciò che avrebbe formato la felicità di un amante, formava invece la mia tortura, né sapeva indurmi a dimostrarglielo. Mi copriva di petali di fiori, mi faceva mangiare dei bottoni di rose, o assaggiare le sue medicine che erano quasi sempre amarissime. Talora esigeva che mi mettessi al tavolo, che le scrivessi una lettera amorosa che mi dettava sovente ella stessa. Dopo essersi abbandonata a tutte queste follie, era spesso assalita da una tristezza improvvisa, si buttava a terra in ginocchio, mi diceva di perdonarla, e piangeva. Passava da un eccesso all’altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna moderazione né ne’ suoi dolori, né nelle sue gioie. […].
Ma a che scopo ricordare le angoscie di quei giorni? Furono tali dolori che non si possono né immaginare, né dire, né forse sopportare senza soccombervi. La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già più né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere a quella sciagura.
Una cosa sovratutto – e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me – contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole.”
Tratto da [Fosca, capp. XXXII-XXXIII].
Fosca è un romanzo di Iginio Ugo Tarchetti pubblicato 1869. L’autore aderì al movimento milanese della Scapigliatura, termine coniato da Cletto Arrighi che, nelle intenzione dell’artista, doveva essere la corrispettiva traduzione del termine francese bohème (trad. lett. zingaro) che designava un gruppo di artisti parigini che vivevano una vita sregolata e anticonformista. La Scapigliatura, partendo da una feroce critica contro Manzoni, definito il “sacro poeta” (con molta ironia), avevo l’obiettivo di aprire gli orizzonti italiani al panorama letterario europeo: i loro riferimenti più importanti sono infatti L’Uomo della sabbia di E.T.A. Hoffman, I Fiori del male di Baudelaire, Frankenstein Mary Shelley e la bibliografia di Edgar Allan Poe. Da qui, riusciamo a cogliere come mai i temi principali trattati dagli scapigliati sono: il doppio, il malessere, il disagio, l’insoddisfazione, la morbosità, il macabro e la disperazione. Nonostante stiamo parlando di un fenomeno di breve durata, la Scapigliatura può essere considerato un movimento precursore del Verismo, per aver saputo descrivere la realtà “nuda e cruda” e del Decadentismo, in quanto aveva già denunciato la decadenza della figura del poeta.
In questo contesto, si inserisce il romanzo di ispirazione autobiografica Fosca che tratta la storia amorosa di Giorgio, stretto tra due fuochi: Clara e Fosca, due donne dai caratteri opposti, sottolineati dai loro nomi. Clara è una donna gioiosa e piacevole e rappresenta la vita e la guarigione ed è donatrice di salute al protagonista; al contrario, Fosca è la donna-vampiro, che succhia la linfa vitale all’uomo corrompendolo e portandolo alla morte. Fosca rappresenta dunque la femme-fatale (anticipando la protagonista della Lupa di Verga e la donna amata dannunziana) alla quale si è fatalmente attratti e non si può sfuggire. È la donna che porta l’uomo inevitabilmente alla morte. Giorgio, infatti, non riesce a capire come mai sia così attratto da questa donna orrenda, di rara bruttezza e dall’aspetto malato.
Ma come mai, così tanto spesso, non riusciamo a staccarci dai rapporti morbosi? Come mai, a volte, piuttosto che scegliere delle relazioni sane, che ci fanno stare bene, finiamo per rimanere invischiati in dei rapporti malati e controproducenti? Questo triangolo amoroso tra Giorgio, Clara e Fosca ci può dare uno spunto di riflessione su questo tema.