di Cristiana Galbiati – Professional Counselor e istruttrice di Mindfulness e Autocompassione
Una malattia o una disabilità non sono difficili solo per la persona che ne soffre, ma sono anche una sfida enorme per chiunque abbia una relazione stretta con lei che ne risentirà anche dal punto di vista emotivo. Più la persona è vicina a chi soffre, più ne sarà colpita.
Vedere soffrire la persona di cui ci si sta prendendo cura e non riuscire ad alleviare il suo dolore provoca inevitabilmente sentimenti anche contrastanti come tristezza, dolore, rabbia, sopraffazione, depressione, disperazione e sensazione di blocco. Spesso questi sentimenti vengono soppressi perché si ritiene di non doversi lamentare, non essendo noi i malati. I caregiver che sono anche familiari hanno anche un rischio maggiore di burnout rispetto agli altri caregiver, perché non sono mai in grado di prendersi una pausa e di prendere una distanza interna (ed esterna).
Quando ho iniziato a prendermi cura di mia madre che aveva problemi di degenerazione cognitiva, ho cercato invano di destreggiarmi tra molte responsabilità e ho percepito il mio livello di stress aumentare. Di conseguenza, sono diventata più irritabile con gli altri familiari e meno tollerante verso ogni altro evento della quotidianità fosse anche la fila al supermercato o il traffico dell’ora di punta.
C’erano anche altri segnali di allarme. Tra questi c’erano una ricorrente cefalea, disturbi del sonno, un’alterata relazione con il cibo, una minore attenzione/capacità di concentrazione e una generale demotivazione nei confronti del lavoro e degli interessi in genere. A tempo debito, mi sono resa conto del collegamento tra causa ed effetto: l’aumento delle mie responsabilità di assistenza e il prezzo emotivo dell’essere spettatore del declino di mia madre, avevano determinato un accumulo di tensione.
È un suggerimento diffuso quello di prendersi cura di sé stessi mentre si presta assistenza e ci si prende cura di una persona cara malata o disabile. È innegabile che sia un consiglio sensato, ma non è sempre facile prenderlo in considerazione. Come caregiver possiamo essere convinti che le cose vadano “bene così”, evitando di prenderci cura di noi stessi o non riuscendo a comprendere cosa fare per occuparci del nostro benessere.
In questi casi l’autocompassione può diventare un’alleata fidata ed è stata cruciale per me per aiutarmi a collaborare con l’inevitabile. Mi ha aiutata a far fronte alla situazione mettendomi nello stato emotivo equilibrato necessario per affrontare con consapevolezza qualsiasi nuova sfida mi si presentasse nel prendermi cura di mia madre. Portare una gentile consapevolezza a queste situazioni complesse mi ha aiutata a vedere più chiaramente cosa fosse necessario per ridurre lo stress e la sofferenza nel mio ruolo di caregiver.
Le pratiche di autocompassione si basano sul coltivare la gentilezza con sé stessi (soprattutto nei momenti difficili), riconoscere la propria sofferenza e accogliere i sentimenti negativi che fanno naturalmente parte della nostra umanità. Mettere in pratica l’autocompassione significa accorgersi quando c’è un problema per affrontarlo in modo efficace.
Chi si prende cura del caregiver?
Tutti i modi per affrontare il dolore emotivo sono gli stessi per la persona che soffre e per tutti coloro che se ne prendono cura. Tutti i tipi di attività di autocura sono utili, soprattutto la meditazione. La mindfulness (o consapevolezza del momento presente) può rendere ancora più efficaci altre attività di autocura – un allenamento, un caffè con un amico, un po’ di tempo in giardino – e migliorarne il piacere, aiutandoci a essere presenti. Il problema della cura di sé, però, è che richiede tempo. È probabile che, con tutte le responsabilità che un caregiver deve sostenere, non ci sarà molto tempo, o non ce ne sarà affatto, per fare un massaggio, una passeggiata nella natura, per uscire a cena con gli amici, per prendere delle lezioni di yoga o andare a vedere una partita.
È importante fare tutto ciò che ci è possibile fare, ma è altrettanto importante sapere che non è tutto quello che si può fare. È qui che la mindfulness e l’autocompassione ci vengono in aiuto: è possibile praticare in qualsiasi momento della giornata, indipendentemente da ciò che sta accadendo.
La mindfulness e l’autocompassione sono sempre disponibili, anche mentre ci prendiamo cura di chi soffre. Si può essere consapevoli di ciò che sta accadendo agli altri e a sé stessi allo stesso tempo. Si può notare che c’è una persona di fronte a noi che sta soffrendo e anche che questo influisce sui nostri sentimenti. Possiamo quindi scegliere di essere compassionevoli sia verso il nostro assistito e anche con noi stessi.
La mindfulness consiste nell’essere consapevoli dei propri sentimenti dolorosi in modo chiaro ed equilibrato, in modo da non ignorare né essere ossessionati da elementi non graditi di sé stessi o della propria vita. L’autocompassione può essere rivolta a sé stessi quando la sofferenza si verifica indipendentemente dalla propria volontà, quando le circostanze esterne della vita sono semplicemente troppo dolorose o difficili da sopportare, oppure quando la nostra sofferenza deriva da errori, fallimenti o inadeguatezze personali.
In qualsiasi momento ci sembri opportuno, possiamo fermarci e verificare come ci sentiamo, come si sente il nostro corpo, se c’è qualcosa che possiamo fare in questo momento per sostenerci (come ad esempio rilasciare le spalle o la mascella serrata). Possiamo anche offrirci parole di gentilezza, come “Stai facendo del tuo meglio”, o riconoscere a noi stessi quanto sia difficile questo momento: “Questo è un momento difficile”.
La mindfulness ci permette accorgerci di un’emozione invece di fingere di non averla e di riconoscerla con compassione: “Una parte di me si sente molto frustrata in questo momento” oppure “Non c’è niente di sbagliato nel sentirsi come mi sento in questo momento. È così che si sentono le persone in questo tipo di situazione”. Quando ci prendiamo cura di noi stessi in questo modo, diventa più facile mantenere la lucidità e la compassione per chi ci circonda.
L’autocompassione è fondamentale per i caregiver, non solo perché ci aiuta a perdonarci per i nostri inevitabili errori, ma anche perché ci permette di riconoscere e confortarci per le difficoltà del nostro ruolo di caregiver.
Se siete caregiver, provate a darvi compassione la prossima volta che commettete un errore o vi sentite sfidati oltre le vostre capacità. Non solo aiuterà a superare le situazioni difficili, ma porterà a una maggiore felicità e tranquillità.
Foto: Foto di Sincerely Media su Unsplash
Fonti:
- Outsmart Your Pain: Mindfulness and Self-Compassion to Help You Leave Chronic Pain Behind by Christiane Wolf and Daniel J. Siegel © 2021 by Christiane Wolf, MD, PhD. The Experiment, LLC.
- Neff KD. Self-Compassion: Theory, Method, Research, and Intervention. Annu Rev Psychol. 2023 Jan 18
- Weng, H.Y., Fox, A. S., Shackman, A. J., Stodola, D.E., Caldwell, J. Z., Olson, M. C., Davidson, R.J. (2013). Compassion training alters altruism and neural responses to suffering. Psychological science, 24, 1171-1180.